dal 12 marzo al 16 aprile 2009

LA PRODUZIONE DI VALORE È ATTRIBUZIONE DI SENSO AL MONDO DEI “SEGNI” CREATI DALL’UOMO PER L’UOMO

di Tiziana Musi

Parlare di Fabrizio Bertuccioli vuol dire in primo luogo fare i conti con una pratica estetica ben lontana dalla ricerca contemporanea dove l’effimero, lo spaesante o il dover apparire diventano categorie non solo estetiche ma anche e soprattutto economiche legate ad un oggetto/arte, che si inserisce sempre più come categoria di merce nel mercato. La ricerca artistica di Bertuccioli, invece, si radica in territori lontani, laddove si avvertiva la necessità di praticare l’arte come strumento di riflessione politica e di ripensamento degli statuti consolidati della politica e quindi del vivere civile. Ma la sua non è pittura politica, è pittura etica, morale, che nasce dalla consapevolezza che l’arte per essere tale deve inesorabilmente sottrarsi a schemi economici e produttivi. Utilizzo le parole politica e pittura nel loro senso più profondo e originario: politica come responsabilità civile e pittura come strumento privilegiato del fare arte, pittura come colore, luce, sfumatura, allusione, incanto.
La persona e l’artista coincidono: non è un caso che continuamente Bertuccioli ribadisca la necessità di far convergere l’estetica con l’etica, la pratica artistica non disgiunta da quella politica. Anzi la creazione e la fruizione diventano sinonimi di un flusso di energie dove l’artista espande la propria creatività e consente all’altro di coglierla e di condividerla. L’arte è un dono condiviso per l’affermazione dell’identità della persona. L’arte è regno del gratuito, produce senso, non è bene materiale. È di fondamentale importanza riflettere su questa affermazione dell’artista perché pone uno dei temi di riflessione teorica del contemporaneo più dibattuti: in che modo la nostra società affronta e elabora il concetto di gratuità, del dare all’altro, senza scopo, e di conseguenza come considera la rivendicazione del dono come strumento di relazione con l’altro. Marcel Mauss nel suo saggio Sul Dono (1950,2002) scrive… prestigio sta nel donare, donare molto e donare dappertutto. In questa affermazione (relativa ad alcune popolazioni dell’Oceania) Mauss evidenzia la netta contrapposizione tra il concetto di donare e quello di avere, paradigmatico quest’ultimo del riconoscimento del potere proprio della cultura occidentale. L’opposizione tra un’idea di società fondata sulla solidarietà e quella di un mondo dove ognuno per natura persegue i propri interessi ha dato via anche ad una dicotomia geografica, in cui il Sud del mondo tende sempre più a contrapporsi in termini economici, politici e religiosi all’occidente che certamente non fonda le sue relazioni economiche e non soltanto quelle, sul dono. Infatti l’utilitarismo dominante ha relegato il dono all’interno di una struttura antropologica di tipo esotico. Se infatti per l’Occidente i fatti economici sono pensati come fatti esterni alla moralità (e quanto appare vero oggi, che stiamo vivendo una crisi economica di proporzioni mondiali!) per le culture altre l’economia è spesso pensata all’interno di strutture parentali legati alla religione o a gerarchie sociali. Il valore del dono stigmatizza anche una nuova concezione di relazione dove l’altro non è vissuto come controparte ma come facente parte di una collettività che tende a limitare il predominio dell’Io. E non è un caso che la vita artistica di Bertuccioli si sia sempre collegata a gruppi dove all’interno dei quali condividere esperienze, ma dove soprattutto lavorare in nome di un superamento dell’individualità come affermazione autoreferenziale: dal gruppo Plexus network che raccoglie artisti di diversi paesi nato per promuovere un’idea di operatore estetico come coscienza critica (G. Gigliotti, 2001) al gruppo dei Clandestini che rivendica la sottrazione dell’ar te a un cer to sistema del mercato e alle sue leggi ferree e un ritorno ad una condizione di purezze della pratica artistica. In realtà la clandestinità rivendica una modalità del vivere attualmente non consentita dalle odierne strutture economiche: clandestino quindi non come nascondimento, ma clandestino in quanto portatore di nuovi concetti di libertà, di una nuova coscienza critica, dove il fare arte non è più separabile dal fare politica nel senso che ho accennato prima. Arte è necessità di esercitare l’umanità al di là del raggiungimento della fama, al di là del dolore per il futuro, al di là della precarietà del successo. È un pittore antico Fabrizio Bertuccioli, antico quanto poteva essere stato Joseph Beuys (artista decisamente lontano nella sua esperienza artistica) nella sua caparbietà a restituire all’arte una dimensione umanistica, persa da tempo: in entrambi c’è l’assoluto bisogno di ripensare all’arte in termini totalmente innovativi, non solo nel linguaggio artistico ma soprattutto nella sua specifica valenza morale ed etica., e di ribadire ancora una volta la necessità di esercitare l’umanità. Un’umanità che si perduta e che l’arte deve restituire. La quercia di Beuys assume lo stesso valore sul piano etico dell’espansione della percezione elaborata da Bertuccioli, che restituisce all’uomo un valore primario di persona. È un pittore antico Bertuccioli nella sua riservatezza, nel suo stare appartato, nella sua volontà di considerare il ruolo dell’artista come sciamano, attivatore di flussi energetici: riconosce alla percezione una funzione primaria della relazione osservatore/opera d’arte, ma soprattutto rivendica la possibilità da parte dello spettatore di accedere ad un’energia creativa che può e deve essere condivisa da tutti. Proviamo a guardare alcuni quadri. Viaggio nel tempo, Carnevale a Bagdad, Dal segno al sogno, Do you remember?, Da lontano: titoli poetici, che evocano attraversamenti e territori non soltanto fisici, ma soprattutto emozionali. Inizialmente abbiamo la sensazione di grandi quadri quasi monocromatici, con frammenti di luce che destabilizzano lo spettatore nella percezione complessiva dell’unitarietà dell’opera, poi lentamente ci accorgiamo di una moltitudine di pennellate, di colori sgocciolanti, di sovrapposizioni e sedimentazioni cromatiche, attraverso le quali affiorano particolari di volti, di corpi, tracce di memorie perdute che riappaiono improvvisamente. Lo spettatore ha bisogno di tempo, di attese, poi entra in gioco nel ri/conoscere, ma non è fondamentale il suo riconoscimento: c’è un margine di possibilità, c’è un vuoto che è possibile colmare, ma anche non colmare. Le categorie spaziali e temporali sono scardinate: senza tempo e senza luogo la pittura di Bertuccioli ondeggia tra trasparenze e grumi materici, tra balenanti lampi di luce e spesse pennellate monocrome. Gli strati sedimentati della memoria si intersecano con gli strati cromatici delle pennellate contribuendo all’ampliamento dei dati percettivi In questa discrezionalità della percezione l’artista fa dono del suo essere tale: in quanto dono non ha bisogno di un ritorno, lascia che gli altri condividano, che possano accettare o anche non accettare. L’importante è far capire all’altro che la pittura è una porta regale come diceva Florensky. Una soglia privilegiata tramite la quale l’artista può mostrare la magia dell’ordinario, di un quotidiano vissuto come pratica estetica ed etica. La peculiarità dell’arte è recepire la normalità senza attendere l’evento straordinario, che per lo più è spettacolo prefabbricato.